Questo progetto fotografico esplora la banchina come spazio liminale, un non-luogo in cui le persone si fermano controvoglia, sospese nell’attesa. Luogo di transito per eccellenza, la fermata del bus o del tram è percepita spesso come un’interruzione forzata, un vuoto tra la partenza e la destinazione, dove si percepisce un senso generalizzato di impazienza e frustrazione. Chi aspetta è astratto in un tempo indefinito, circondato da persone sconosciute che, pur essendo vicine, sembrano isole lontanissime. I contorni della realtà sfumano tra sguardi evitati e presenze ignorate, sullo sfondo dell’incessante movimento di una quotidianità che assorbe tutto ciò che resta immobile. Ma se la fermata non fosse solo un intervallo passivo e alienante? Se diventasse invece uno spazio di possibilità? Questo lavoro si interroga su un’interpretazione alternativa della sosta, immaginandola come un’opportunità per riconoscersi nell’altro, per abitare l’attesa in modo diverso. Distogliere lo sguardo dal riflesso di uno schermo per guardarci intorno in maniera presente e cosciente. Il riconoscere nell’altro non una sagoma sbiadita ai margini dell’attesa, ma una narrazione imprevista. In questo sguardo ritrovato, la banchina smette di essere un luogo anonimo e diventa uno spazio vivo e di connessione. In un’epoca in cui fermarsi è percepito come un fastidio, questo progetto vuole restituire dignità alla pausa e alla presenza, trasformando il tempo sospeso dell’attesa in un atto forse, di sovversione. Sollevare la testa non per vedere i minuti che mancano ma per guardare le persone che siamo.